Senza nome 2
INTERVENTO DI GLAUCO FERRANTE
Sono incappato recentemente in una parola che mi ha,
lì per lì, disorientato per la sua originalità, tanto più – trattandosi di un
termine che invano cerchereste sui dizionari inglesi – essa non trova alcuna
corrispondenza nella nostra lingua. La parola in questione, coniata dallo
scrittore britannico conte Horace Walpole è serendipity, il suo significato
approssimativo dovrebbe essere: trovare una cosa quando se ne cerca un’ altra.
A me è capitato allorché ho avuto il piacere di incontrare la signora Giulia
Selvaggi la quale, evidentemente mal informata sul mio conto, aveva preso per
buone le notizie – ahimè – troppo benevole, e quindi fuorvianti, circa la mia
persona. Mi aspettavo di trovare una donna affetta, come tante, da protagonismo
compensatorio, e ho trovato un’autentica artista impegnata nel genere che, a
dispetto della sua apparente facilità, è forse una delle più difficili tra le
forme d’arte. Pensate ai grandi pittori degli ultimi centocinquant’anni da
Francisco Goya a Pablo Picasso, passando per Daumier, Manet, Renoir, van Gogh,
Degas, Matisse, Kandinski. E poi Modigliani, Morandi, Boccioni, Carrà, De
Pisis, giusto per citare qualche italiano. E i fotografi? Dove sono i grandi
fotografi che hanno operato nello stesso arco di tempo? Non c’è dubbio che si
faccia fatica a rintracciare nomi di fotografi importanti che non siano quelli
universalmente noti di Mapplethorne, Newton, Toscani. Ce ne saranno certamente
di altrettanto geniali, il guaio è che sono in pochi a conoscerli e a parlarne.
Noi però, per farlo, dovremo aspettare un’altra occasione, perché oggi io sono
qui per Giulia Selvaggi, la quale – come per saldare il debito che ognuno di
noi, quando viene al mondo, contrae con la città che gli ha dato i natali – ha
dedicato a Manduria, che da qualche secolo ospita la sua famiglia, un album di
splendide immagini fotografiche, tutte rigorosamente notturne, come ci dice il
titolo della raccolta, Manduria in immagini, vista di notte, dove la luce
riflessa dalla tenera arenaria leccese che riveste le facciate dei palazzi, gli
archi dei portali, le chiese, evoca una nobiltà orgogliosa e al tempo stesso
discreta e pudica. A rispettosa distanza dallo storico Castello, e da tutti gli
altri luoghi comuni dell’architettura mandurina, Giulia Selvaggi è andata in
cerca di immagini insolite, rare, preziose che invano cerchereste
nell’iconografia tradizionale della città dove forse giacciono ancora da qualche
parte i resti mortali di Archidamo re di Sparta. Questi, implorato dai tarentini
le cui carovane venivano sistematicamente depredate dagli abitanti di Manduria,
intervenne e cinse d’assedio la città, come racconta in chiave raffinatamente
umoristica il mio compianto e rimpianto amico Giuse Dimitri del quale mi auguro
si provveda, senza ulteriori indugi e rinvii, a celebrare degnamente l’opera e
la persona. Scusatemi se ho sconfinato. L’occasione era unica e ghiotta. Non ho
resistito alla tentazione di approfittarne. Per tornare alle immagini di Giulia
Selvaggi, va sottolineato il contrasto – sempre e comunque armonioso – fra lo
sfondo del cielo senza stelle e gli scorci delle viuzze anonime, i porticati, i
rosoni, i portali, le arcate, i balconi, le piazzette, i vicoli, il tutto
armoniosamente soffuso di una luminosa magia. Le immagini sapientemente carpite
alla Manduria by night ci presentano, attraverso percorsi che sono al tempo
stesso visivi e concettuali, luoghi che credevamo di conoscere e che d’un tratto
ci si rivelano nella loro dimensione complessiva di carme notturno. Né si può
fare a meno di rimpiangere che ci sia inevitabilmente negata la possibilità di
vedere dal vivo la città che l’Autrice ha inventato, ricreato, trasfigurato,
attraverso l’uso sapiente della luce, in queste sue immagini che non è retorico
definire magiche. C’è un aspetto della personalità della signora Selvaggi che ho
potuto cogliere grazie a una mia innata caratteristica, la curiosità viva,
morbosa. Qualunque cosa io legga o guardi il mio interesse, si divide equamente
fra l’opera e l’autore. Nel caso di Giulia Selvaggi ho scoperto, alla pagina 8
del libricino, e ne sono rimasto colpito, una piccola, quasi invisibile e
originale cifra di civetteria, inserita molto, molto elegantemente. Le due
cornici, superiore e inferiore dell’immagine sono composte da due sequenze di
sguardi femminili, sguardi intensi, ipnotici, significativi che partono dagli
occhi di Giulia Selvaggi. Vittorio Sgarbi, in contraddizione con i suoi
interventi televisivi che talvolta hanno degenerato in autentiche risse, è – nel
suo privato – una persona veramente deliziosa, cortese, attento, premuroso.
Quando visita una città, come primo approccio s’informa circa la sua consistenza
culturale. Capitato, anni fa, a Martina Franca, qualcuno gli disse che avevo
pubblicato un romanzo. Se ne procura una copia, lo legge in una notte (egli –
lettore famelico – legge solo di notte), dice a qualcuno che se quel libro fosse
stato pubblicato a Milano anziché a Foggia, sarebbe stato un best-seller
(giudizio che, non essendo documentato, non posso purtroppo inserire nel mio
curriculum), chiede di vedermi. L’incontro, per come è maturato, mi mette un po’
a disagio. Sgarbi deve allontanarsi, mi chiede scusa e mi affida alla sua
fidanzata pro tempore che, ad evitare le scongiurabili carestie, egli si porta
sempre dietro. Lo incontrerò altre volte a Roma nella sede dello scomparso
Partito Liberale. Vi ho detto queste cose perché voglio concludere proprio con
una frase di Sgarbi tolta da una pubblicazione rotariana:
L’arte ha voluto
distinguersi dalla vita contrapponendo al suo tempo mortale quello immortale
dell’eternità. Cercare di scavalcare la vita non vuol dire annullarla,
cancellarla. Al contrario, significa sublimare la vita, fondarla su ideali
estetici e morali che la elevino dal piano del contingente a quello dell’assoluto………Se
Fidia e Goya continuano a vivere nelle loro opere, non è soltanto per una loro
forza intrinseca, ma perché siamo noi a volere che vivano ancora, che sìano
ancora con noi, uomini alle soglie del nuovo millennio, e che abbiano ancora
qualcosa da insegnarci. Le immagini di Giulia Selvaggi si collocano sul piano
dell’assoluto, continueranno a vivere.
Napoletano di origine, Glauco Ferrante è
nato a Martina Franca, dove vive e opera. Ha conseguito la maturità classica nel
liceo “Tito Livio” di Martina Franca e la laurea in chimica presso l’Università
di Bologna. Ha collaborato regolarmente dal 1972 al 1990 al quotidiano “Il
Tempo” e dal 1985 al 1993, al settimanale “L’Opinione”. Già iscritto all’ordine
dei giornalisti: elenco dei pubblicisti, il suo nome figura fra gli autori
radiofonici della RAI Radio Televisione Italiana, per la quale ha curato i testi
di una serie di puntate della rubrica di Rai 2 “Domenica Musica”, nonché la
riduzione e l’adattamento di racconti di viaggiatori in Puglia. Il suo romanzo
d’esordio: “Gli Opportunisti”, Bastoni – Foggia 1985, gli valse il premio
selezione Scanno. Nel 1992 ha pubblicato (anonimo) con l’editrice Meb-Padova, il
pamplet: “come fare carriera in politica”, favorevolmente accolto dalla stampa
nazionale. Dei suoi libri hanno parlato fra gli altri: Nello Aiello, Corrado
Augias, Giulio Cattaneo, Danilo Granchi, Maria Luisa Spaziani, Raffaele Nigro.
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